Casa occupata, Julio Cortazar
Fratello e sorella , alle soglie della quarantina, vivono in una grande casa di famiglia a Buenos Aires. Abitano da soli, insieme ai ricordi della loro infanzia. Quel luogo immenso e silenzioso trasuda nostalgia e routine giornaliera, per lo più noiosa, ma fatta anche di momenti felici, di letture, di lavori a maglia, di pranzi e cene momenti conviviali. Negli anni avevano avuto delle relazioni sentimentali, ma di breve durata, non erano mai arrivati neanche all’idea di un matrimonio. La casa invece li aveva uniti sempre di più.
Una sera, il fratello udii dei rumori sordi provenire dalla sala da pranzo, o forse dalla biblioteca. Ebbe la sensazione che stessero cercando di entrare. Si gettò subito sulla porta che divideva quella parte della casa dalla loro zona, e la chiuse a chiave.
Da quel momento si organizzarono per vivere nell’altra lato della casa. I primi giorni furono turbati dall’accaduto, in quanto avevano lasciato nella parte ‘occupata’ della casa diverse cose che amavano: i libri del fratello di letteratura francese, certe tovagliette a cui la sorella era molto affezionata. Tuttavia la tristezza svanì dopo pochi giorni.
La loro vita riprese come prima, anzi, osservarono che alla fine non era andata poi così male: non dovendo più prendersi cura delle stanze, avrebbero avuto più tempo per loro.
Ma presto, quei sporadici momenti di riflessione durante i quali pensavano al curioso accaduto, vennero spazzati via da una nuova routine quotidiana, per riemergere all’improvviso durante le ore serali, le ore più silenziose, le ore in cui i loro pensieri, all’improvviso prendevano vita.
Una sera, d’un tratto, il fratello sentì nuovamente dei rumori sempre più forti provenire dalla cucina, o dal bagno. Velocemente prese la sorella per un braccio, chiuse a chiave la porta e si diressero verso la porta finestra, restando nell’atrio. Ora non si udiva più nulla. Solo in quel momento si accorsero di non essere riusciti, anche questa volta, a portare niente di personale con loro…
Una volta in strada il fratello guardò il suo orologio, l’unica cosa che gli era rimasta, segnava le undici. Prima di allontanarsi si diressero verso l’ingresso principale della casa, chiuse la porta a chiave e la gettò nel tombino.
‘Che a un povero diavolo non venisse in mente di rubare e di entrare in casa, a quell’ora di notte e con la casa occupata.’
Il racconto in questione è una descrizione fantastica e surreale di come un contesto, in questo caso la propria casa di famiglia, luogo carico di significati per antonomasia, possa diventare una sorta di rifugio/ prigione, da cui non ci si riesce ad allontanare, ma allo stesso tempo il luogo di oscure minacce percepite, con tutte le ambivalenze del caso.
Chi non ha mai avuto l’impressione di essere incastrato in una realtà che lo sovrasta? E se non fosse la realtà ad intrappolarci, ma il nostro modo di porci di fronte ad essa, quando il vissuto diventa passività e le nostre energie si disperdono in pensieri che non hanno direzione o progettualità?
Pensiamo ad esempio alle nostre esperienze personali sedimentate nel tempo, forgiate dagli accadimenti della vita, che hanno contribuito a costruire dinamiche relazionali sempre più rigide, tali da dare a volte la sensazione di non avere una via di uscita, limitando così la nostra capacità di adattamento o di cambiamento.
Ed è per questo che le relazioni significative, i legami attraverso i quali abbiamo costruito le nostre stabilità esistenziali, possono trasformarsi a volte in luoghi originari della nostra sofferenza. Ma, allo stesso tempo, possono anche evidenziare percorsi di cambiamento e di apertura a nuovi significati.
E come si fa a cambiare una realtà che ci sta stretta e che ci fa soffrire? In che modo possiamo disporci verso relazioni più libere e autentiche?
Innanzitutto iniziando ad ascoltarci. Quando ricerchiamo esperienze che ci impediscono di pensare, fagocitati da abitudini impellenti, dall’abuso dell’utilizzo dei
social, oppure da routine frenetiche, in realtà ci stiamo allontanando dalle nostre emozioni, dai nostri pensieri, da noi stessi e dalle relazioni autentiche con l’altro.
Attraverso queste routine bruciamo il nostro tempo, occupiamo quei vuoti tanto temuti, ma non ci accorgiamo di girare nella ruota del criceto. E continuiamo a star male, a sentirci bloccati.
A volte le routine quotidiane vanno a costruire un contesto che se da un lato ci è familiare, allo stesso tempo ci incastra e cristallizza il nostro tempo con la nostra vita (come la grande casa in cui vivevano i due ragazzi del racconto). Ci distoglie dal dare un senso a ciò che ci accade, dalle esperienze dolorose ma anche da luoghi dove è possibile costruire spazi di esistenza e relazionali più stimolanti, spazi che attraverso la loro diversità ci consentono di crescere.
Un percorso di cambiamento vuol dire anche decidere di affrontare questi spazi, prendersi i rischi di allontanarsi dalle proprie zone di comfort, aprirsi a nuovi scenari di possibilità.
Trovare il proprio luogo significa quindi dare vita ad una nuova storia. Una storia che non fa rimbalzare i propri significati da una generazione all’altra, come è accaduto ai protagonisti del racconto, che hanno vissuto in un guscio senza nessuna prospettiva di cambiamento e di evoluzione personale. Una storia che ci insegni a mettere in crisi il proprio immobilismo e ci conduca verso nuovi orizzonti di senso, luoghi sconosciuti in cui ci attendono nuove sfide e possibilità di trasformazioni.
Dott.ssa Paola Uriati